''Esperar'', un Erasmus e i piccioni. I cinque mesi di Alessandra a Barcellona
"Serviva un uggioso fine settimana d'ottobre perché mi convincessi anch'io a rimettere insieme i ricordi e a scrivere la mia breve esperienza di italiana all'estero. A pensarci bene, i progetti che ho perseguito con più tenacia e convinzione derivano quasi sempre da scelte che ho preso così, su due piedi, senza pensare. La decisione di fare domanda per una borsa di studio Erasmus non fa eccezione
Serviva un uggioso fine settimana d'ottobre perché mi convincessi anch'io a rimettere insieme i ricordi e a scrivere la mia breve esperienza di italiana all'estero. A pensarci bene, i progetti che ho perseguito con più tenacia e convinzione derivano quasi sempre da scelte che ho preso così, su due piedi, senza pensare. La decisione di fare domanda per una borsa di studio Erasmus non fa eccezione. Certo, c'erano sicuramente alla base la voglia di mettersi alla prova e la curiosità di vedere cose nuove, complice anche una relazione finita male, ma mancavano appena cinque giorni alla scadenza del bando e in quel freddo febbraio del 2012 non ebbi molto tempo per valutare tutto. Tanto per cominciare non andai a parlare con nessun professore che avrebbe potuto consigliarmi né con persone che avevano già fatto un'esperienza simile, non visitai i siti delle Università convenzionate con Siena, semplicemente non pensai. Persino la destinazione, Barcellona, non era stata meditata con tanto giudizio. Ci volevo andare perché non l'avevo mai vista (come molte altre città europee in realtà), per la colonna sonora di Vicky Crisitna Barcelona, perché il catalano mi sembrava che suonasse bene. Tutti validi motivi insomma, che non sarebbero certo serviti per la carriera accademica di una studentessa di Lettere moderne. La verità è che volevo andare via da questo paese e dalla noia di tutti i giorni. E basta.
Nonostante l'incoscienza del momento, nei mesi prima della pubblicazione della graduatoria e della partenza, a settembre di quell'anno, non presi mai in considerazione nemmeno per un attimo la possibilità di non partire. Anzi, ne parlavo con tutti. Un enorme conto alla rovescia appariva nella mia mente tutte le volte che qualcuno mi chiedeva di questo viaggio. Mancavano cinquanta, quaranta, trenta giorni e poi sarei stata una persona diversa, con un accento particolare, nuove amicizie, cose interessanti da raccontare e di cui vantarsi. Faceva anche un po' fico, credo, sempre nella mia mente.
Il 9 settembre del 2012 partii per la Spagna insieme a mia sorella e mio cugino, a seguito di un tour de force allucinante per essere in pari con gli esami. Dopo 72 ore, più o meno 6 case viste e le prime prove con lo spagnolo, che non sapevo, rimasi sola. Chi me l'aveva fatto fare? Ricordo perfettamente le videochiamate Skype di quei giorni in cui a stento riuscivo a trattenere il pianto. All'improvviso Casole d'Elsa, che mi era sempre stato tanto stretto addosso, era diventato nel mio immaginario un borgo medievale dalla bellezza commovente, un luogo intimo e sicuro dove c'era sempre il sole, dove chiunque avesse voluto sarebbe potuto stare bene per sempre. E gli abitanti di Casole d'Elsa, che a lungo avevo criticato per un'accentuata non ampiezza di vedute, mi sembravano in quel momento i custodi di un antico segreto, che senza smanie e troppe pretese avevano ricche storie da raccontare. Ma più di tutto mi mancavano gli affetti: le voci amiche di chi ti ascolta sempre, i pranzi pesanti della domenica, il viso ossuto di mio nonno che si era convinto che non mi avrebbe vista tornare, le guance sgualcite di mia nonna. Ci misi quasi dieci giorni per andare a visitare qualcosa della città, un mese e mezzo per comprare una scheda telefonica spagnola. Non ci voleva un genio per capire che mi mancava casa mia e questo non faceva per niente fico.
Ricordo il momento preciso in cui tutto cominciò a sembrarmi familiare. Ci volle un po', ma una notte, scesa dalla metro davanti alla Sagrada Familia prima di tornare a casa, ebbi proprio la sensazione di sentirmi fortunata. Avevo appena passato la serata con Teresa, Laura e Martina, tre amiche che oggi sento poco e vedo ancora meno ma che mi porto dentro, e mi dirigevo silenziosa verso Carrer de Romans. Barcellona è una città strana, che ti accoglie e ti respinge allo stesso tempo. La sensazione di casa e di calore va di pari passo con quella di disagio e di esclusione. Anche da un punto di vista architettonico, si divide tra i quartieri del centro, più turistici e pieni di stranieri, e quelli meno conosciuti, dove a domande in castigliano ricevi risposte in catalano. Non voglio dire che i catalani siano poco accoglienti, anzi, ma il loro sforzo di preservare gelosamente la loro cultura e la loro identità è così forte e robusto da passare sopra alle comuni norme di convivialità (in generale, s'intende). Avevo ormai capito che non è vero che lo spagnolo è l'italiano con la s alla fine di ogni parola e mi perdevo in sciocche scoperte linguistiche. Per esempio, gli spagnoli usano il verbo “esperar” sia per dire “aspettare” che “sperare” (ha senso, perché aspettiamo tutti qualcosa quando speriamo e speriamo sempre quando siamo in attesa, no?). Dicono anche “sposas” per riferirsi alle “manette”, oltre che alle “spose”, ma su questo non mi esprimo. Alina e Jorge, i miei coinquilini, sono stati come dei fratelli maggiori, che mi hanno rimproverata e consolata nei momenti giusti, che hanno condiviso con me pasti e amicizie. Sono stati gli inconsapevoli testimoni di un momento che mi ha profondamente cambiata.
Nei cinque mesi a Barcellona ho accarezzato spesso l'idea di prolungare il mio viaggio. La cosa che ogni tanto mi manca dell'Erasmus è quella che meno mi mancava allora, ovvero la distanza. Dalle cose di tutti i giorni, dai piccoli problemi che sembrano grandi, dai rapporti che non solo legano ma costringono. Tutte le volte che ho letto un racconto di “Noi, italiani all'estero”, una parte di me avrebbe voluto fare le valigie. Tuttavia, nel tempo ho trovato una serie di motivazioni più o meno sensate che hanno giustificato la decisione di tornare e restare in Italia. Perché di questo si tratta, di una decisione. L'amore viscerale per la lingua italiana, tanto per cominciare, e per la storia che le appartiene, probabilmente dovuto ai miei studi. La dannata inclinazione a partecipare, a dire la mia anche quando non mi viene chiesto, che credo di poter rilegare difficilmente alla minoranza di un altro Paese. La rete non trascurabile di rapporti di stima e affetto che ho costruito nel tempo e che si trovava e si trova soprattutto in Italia. E qualcos'altro che non so ben definire, che forse ha qualcosa a che fare con la cultura e l'identità. Forse somiglio anch'io a uno dei piccioni di un signore di Casole che conosco, che se anche vanno a decine di migliaia di chilometri di distanza ritrovano sempre la strada di casa.
Alessandra Angioletti
Chiunque voglia contribuire e raccontare la sua storia può scrivere a redazione@valdelsa.net
Pubblicato il 19 ottobre 2015