Tommaso racconta dei suoi due mesi a Dubai, una città che è molte cose tutte insieme, ma soprattutto ricca di contraddizioni

Chi ha viaggiato lo sa benissimo: trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e non avere gli strumenti per comprendere ti lascia spiazzato, basito. Le reazioni che si hanno in questi momenti e le emozioni che si provano variano molto in base all'adattabilità, alle esperienze passate e alla curiosità intrinseca di ciascuno di noi

 ITALIANI ALL'ESTERO
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Un fortissimo odore d'incenso e cenere si emanava all'interno della sala. Stanchi e fiochi candelabri proiettavano luci altrettanto stanche sugli scarni muri intonacati con un bianco troppo brillante per sembrare credibile. Il gioco di luci e odori rimarcava fortemente la falsità (meglio tutto il periodo!) dell'intera struttura. Eppure tutto incuteva rispetto, quel timore reverenziale che si prova quando si entra in contatto con una religione e una cultura completamente differenti dalla tua.
Non sapevo come muovermi, come comportarmi. Era come se fossi un corpo estraneo all'interno di questo sistema di stucchi bianchi, lucide travi e mosaici appariscenti. Tutto era troppo perfetto per essere autentico. Una perfezione che però soggiogava, che metteva a disagio. La luce, gli odori, i colori: tutto era minuziosamente soppesato e in equilibrio nello spazio etereo che era quella moschea. Sentivo il mio corpo inadatto a sostenere tanta perfezione. La moschea mi rigettava: e io non potevo oppormi a questa sensazione.
Un imam, ultimo baluardo di una religiosità che si è radicalmente trasformata e mutata nel tempo, mi aiutò a capire, a comprendere l'Islam, l'Islam autentico, non quello fatto di pregiudizi e luoghi comuni.

Chi ha viaggiato lo sa benissimo: trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e non avere gli strumenti per comprendere ti lascia spiazzato, basito. Le reazioni che si hanno in questi momenti e le emozioni che si provano variano molto in base all'adattabilità, alle esperienze passate e alla curiosità intrinseca di ciascuno di noi. Questa esperienza fondamentale, primo, vero e forse unico punto di contatto umanamente rilevante con la città, mi aiutò a capire un po' di cose.

Dubai è una città ricca di contraddizioni, protesa al futuro ma spasmodicamente in ricerca di un passato che le dia una qualche forma di legittimazione per il ruolo globale che vuole ricoprire. Diciamocelo francamente, Dubai non ha storia. E fino agli inizi degli anni '70 non aveva neanche uno stato. Era un piccolo emirato di 15mila anime, prevalentemente pescatori e pastori, dimenticato da Dio (pardon, Allah) sulle coste del golfo persico. Nelle strade non sfrecciavano Lamborghini o Ferrari ma stanchi cammelli e altrettanto stanchi individui che si trascinavano dietro ceste stracolme di datteri, pesce e credenze, più o meno, religiosamente ortodosse. Di questa Dubai, concettualmente lontana anni luce dalla città odierna ma relativamente vicina, forse anche troppo, nel tempo, sono rimaste poche testimonianze all'interno della Bar Dubai, la "Vecchia Dubai". Un fortino settecentesco, scalcinato e troppo frettolosamente trasformato in museo, un fiumiciattolo, punteggiato di piccole imbarcazioni di legno messe lì per acchiappare turisti più che i pesci, e due souq ("mercato coperto"), quello dell'oro e quello delle spezie, sono le uniche testimonianze di un passato non propriamente glorioso; da qui forse nasce lo spirito di rivalsa della città.

Dubai è adesso una città ambiziosa. Non rinnega il suo passato ma certamente non ne va fiera. Lo si vede chiaramente nel modo in cui si è prepotentemente affacciata al XXI secolo. Questa è una città che non teme il futuro, anzi, lo asseconda e lo imbriglia nei suoi grattacieli, nelle sue strade, nella sua gente. Qui si è investito e si continua ad investire su idee e persone che da altre parti del mondo non avrebbero mai trovato lo spazio (stimolo, la possibilità?) necessario per un'eventuale affermazione. Qui il concetto di follia, intesa come limitazione, non esiste. Il maestoso progetto per l'Expo 2020, unanimemente assegnato alla città da una commissione internazionale, estasiata dal progetto della candidatura della città dell'oro, è la prova definitiva che Dubai non ha limiti. Anzi, forse un limite ce l'ha: Sky's the limit.
A che altezza comincia il cielo e finisce la terra? Il Burj Khalifa (Letteralmente "Torre del califfato", concretamente "Torre dello sponsor che ha finanziato il progetto") ha posto questo limite a 830 metri di altezza nel 2009, quando lo skyscraper più alto al mondo è stato sfarzosamente inaugurato nel downtown. Costato 3 miliardi di dollari, il Burj Dubai (questo il nome originariamente scelto prima che i dollari lo modificassero) è l'edificio più alto mai costruito dall'uomo. Non ancora per molto però.

Dubai è una città che non si accontenta. Nella sua spasmodica ricerca di un progetto urbanistico che possa metterla finalmente in difficoltà, la città ha sempre saputo reinventarsi e adattarsi alle nuove sfide, sfidando ogni limite e costrizione.
Creare un'isola artificiale a forma di palma visibile a occhio nudo dalla stazione spaziale internazionale? Fatto. Vi diranno anche che non è stato nemmeno troppo difficile. Una pista da sci nel bel mezzo del deserto con tanto di baita, cioccolata calda e canzoncine tirolesi? Pfff. Costruire lo shopping mall più grande al mondo? Troppo facile, quasi irrisoriamente banale. Perché allora non arricchirlo con un acquario e una pista da pattinaggio indoor? Ovviamente, entrambe le attrazioni devono essere le più grandi al mondo nelle loro rispettive categorie: altrimenti che gusto ci sarebbe? Eccoci, benvenuti al Dubai Mall; da non confondersi con il Mall of the Emirates, il fratello minore. Sì, proprio lui, il fratellino tirolese con la pista da sci, la baita e le canzoncine natalizie.

Dubai non vuole essere seconda a nessuno: nemmeno a se stessa. E' una città che si pone costantemente nuovi limiti. Il prossimo? Ha un nome particolare. Un nome che unisce la tradizione araba con quella occidentale per rimarcarne ulteriormente le aspirazioni globali che la città nutre: Burj 2020. Burj, ancora? Si, esattamente come il Burj Al-Arab, la famosa "vela", unico albergo "Seven Stars Luxury" al mondo. Ve l'ho detto che non vogliono essere secondi a nessuno!
Non vi sto più a spiegare cosa significhi Burj. Ormai dovreste averlo imparato. 2020, per i meno attenti, invece, è l'anno dell'Expo. Mentre scrivo, Burj 2020 ha già gettato le proprie fondamenta. È una nova struttura che sorgerà entro il 2020 presso il complesso residenziale delle Jumeirah Lake Towers (cercatelo su Google Maps e godetevi le riprese satellitari, meritano! E poi, io vivevo proprio lì!). Con il Burj 2020 Dubai si è posta un nuovo limite. Il limite è uno: esattamente come il kilometro che separerà la punta dell'edificio dalla sabbia su cui sarà edificato.

Dubai è la città degli eccessi, architettonici e non. La movida, termine non propriamente arabo, è delle più particolari e uniche al mondo. Oltre ai clubs più esclusivi (e cari!) come il Cavalli, l'Armani ( forse vi ricorderanno qualcosa...) e Le Cirque du Soir, i vari rooftops e gli shisha lounges che affollano i grattacieli della città offrono spettacoli mozzafiato. Mediamente, 100 dirhams sono soldi ben spesi per una shisha di qualità.

Dubai è una città rigorosamente liberale. Se con un occhio guarda al suo passato islamico e sancisce la sharia come legge ufficiale dell'emirato (Dubai è uno dei sette emirati dell'U.A.E. ed il più libero), l'altro lo strizza verso i grandi consumatori occidentali: i turisti e gli expats che vi abitano possono trovare alcool e maiale a volontà. In barba al povero Muhammad. Basta sapere dove cercare e non temere di alleggerire il proprio portafoglio.

Dubai è una città generosa. Prodiga, però, solo con chi è nato dalla parte giusta del pianeta. Se da una parte arabi, occidentali e facoltosi di mezzo mondo godono di una libertà quasi sfrenata e di opportunità professionali a cui è difficile rispondere con un "no, grazie", dall'altra esiste un fittissimo sottobosco, meglio forse sottodeserto, di lavoratori sottopagati ed exploited. Perdonatemi l'inglesismo: questa parola rende benissimo il concetto in inglese. In italiano andrebbe tradotta con una perifrasi che suonerebbe all'incirca così: "privati di ogni diritto e sfruttati fino allo sfinimento". E' una massa anonima di lavoratori provenienti prevalentemente dal sub-continente indiano. Immigrati, in larga parte clandestini, senza uno straccio di documento (ai più fortunati il passaporto viene sequestrato al momento dell'arrivo) che si spaccano la schiena per aiutare i familiari, spesso troppo numerosi, che sono rimasti nel paese di origine. Per il lavoro che svolgono la paga è da fame. Non so come facciano a campare a Dubai. I soldi, sudatissimi, sono però parecchi quattrini se paragonati al livello medio degli stipendi nel paese di origine. Ecco allora che molti s'imbarcano, spesso senza fare ritorno, per aiutare la famiglia. Una storia che noi italiani conosciamo fin troppo bene ma che ha spesso risvolti ben più tragici rispetto a quelle che i nostri nonni ci hanno raccontato. Infatti, non è raro, anzi è tristemente comune, che, arrivati alla soglia della non-capacità lavorativa (intorno ai 45 anni per il tipo di lavoro che svolgono), molti di questi lavoratori si suicidino, simulando incidenti sul lavoro per riscuotere una sorta d'assicurazione sulla vita. 200mila rupie, mi è stato detto. Fate voi il cambio in Euro.

Dubai è spietata per chi è nato dall'altra parte. Chi sa cosa ne pensa l'imam. Avessi saputo prima di questa storia, sicuramente, glielo avrei chiesto. Mi avrebbe forse risposto che Dubai è anche questo. Non voglio creare parallelismi con l'Italia. Semplicemente non si può. Il confronto sarebbe snaturato e non oggettivo. Qui, chi lavora ha un'età media che si aggira intorno ai ventotto anni: tutte le opere che i giovani vedono iniziare sono concluse in meno di tre anni. Da noi, in Italia, quei giovani che vedono aprire un cantiere sono gli stessi vecchietti che, braccia conserte, ne criticano l'utilità e la lentezza qualche decennio più tardi.

Dubai, invece, è una città dinamica. E questa dinamicità richiede, si stima, in media 3mila vite l'anno. Morti bianche. Un bianco troppo brillante per sembrare credibile.
Ho vissuto per circa due mesi a Dubai. Queste sono soltanto alcune delle cose che ho provato sulla mia pelle. Credo ci sia, ovviamente, molto altro. Come tutte le grandi città, e forse anche più di altre viste le tante contraddizioni che la caratterizzano, Dubai ha bisogno di essere vissuta, esplorata, investigata e capita con occhi diversi da quelli con cui uno è abituato a guardare. Occhi di imam: lo sguardo di chi sa esattamente quali sono le basi della città e la direzione in cui essa sta andando.
"Salam alaikum". "Wa Alaykum S-Salam", mi rispose.

Tommaso Scudiero
 

 

 

 


Chiunque voglia contribuire e raccontare la sua storia può scrivere a redazione@valdelsa.net

Pubblicato il 16 luglio 2014

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