Intervista a Daniele Colucciello, poggibonsese all'estero da otto anni

«Il primo anno a Londra è stato molto duro, dovevo farmi conoscere ed entrare nel giro. Sono stato fortunato perché lì ho molti amici che mi hanno dato ospitalità in quel periodo. Nel secondo anno ho incominciato a lavorare come assistente fotografico, ho iniziato quindi a fare un po’ di gavetta. Ho lavorato con diversi fotografi, anche di livello internazionale. Adesso sono quattro anni che vivo qui e continuo a fare l’assistente, il processo per diventare fotografo full time è lungo»

 ITALIANI ALL'ESTERO
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Ciao Daniele, da quanti anni vivi all’estero?

«È dal 2011 che vivo fuori, sono otto anni. In realtà avevo già fatto in precedenza sei mesi in Inghilterra, a Norwich, dopo le superiori. Non parlavo bene la lingua e mi ritrovai a fare i lavori che capitavano, ma nel complesso andò bene. Poi sono tornato in Italia per studiare e ho frequentato per tre anni il Polimoda a Firenze. Quando ho finito ero nel pieno della crisi economica ed ero un po’ dispiaciuto per il sistema italiano, per cui decisi di andare via. Uno dei miei migliori amici viveva, e vive tutt’ora, in Norvegia e mi spinse ad andare lì da lui».

La Norvegia è un paese molto diverso dal nostro, non dev’essere stata una scelta facile. Qual è stato il tuo impatto con quella realtà? Hai avuto problemi o difficoltà?

«All’inizio sono stato aiutato da questo mio grande amico, mi ha ospitato lui per un mese, quindi ero in un certo senso avvantaggiato rispetto ad altre persone. Però ti ritrovi in una realtà che è molto diversa dalla nostra. Parlano tutti l’inglese, ma è ovvio che in molti aspetti della quotidianità è fondamentale il norvegese, per cui è stata un po’ dura. Ho trovato lavoro come cameriere nel ristorante in cui lavorava il mio amico e alla fine lo stile di vita non era così male, lavoravo 16 giorni al mese e avevo tanto tempo libero, ma riuscivo comunque a mettere da parte un sacco di soldi. Il programma era all’inizio di rimanere lì per un anno, guadagnare un po’ e andare da qualche altra parte, poi però alcune vicende personali mi hanno convinto a rimanere in Norvegia. Ho iniziato a cambiare diversi lavori, ma sempre nell’ambito della ristorazione. Ad un certo punto ho realizzato che quel tipo di lavori non facevano per me, così ho cominciato a guardarmi un po’ intorno. Per un periodo ho pensato di fare anche il dog-trainer per i cani che fanno da guida ai non vedenti, ma era in norvegese e quindi…».

Sei mai riuscito ad imparare il norvegese?

«Un po’ si, qualcosa la capisco. Il fatto è che il primo anno pensavo fosse inutile impararlo visto che comunque dovevo andare via, per cui parlavo inglese, tanto mi bastava. In seguito ho fatto un piccolo corso, ma costava intorno ai 600 euro al mese, non poco. Per cui mi accontentai dell’inglese, in fondo tutti lì lo parlano e lo capiscono. Però è anche vero che quando sei in un paese straniero è giusto imparare la lingua visto che è il paese che ti ospita. Poi dipende dal punto della tua vita in cui sei, se uno per esempio pensa di mettere su famiglia è indispensabile impararlo. La Norvegia è un paese bellissimo, ti aiutano tantissimo dal punto di vista sociale, è un paese molto tranquillo. Però io avevo deciso che volevo cambiare e volevo lavorare nel mondo della fotografia».

Ecco, come nasce questa passione?

«Ho sempre fatto il fotografo a livello amatoriale, ma ad un certo punto stava diventando qualcosa di più, ho pensato che potevo essere bravo e che potevo portare avanti questa cosa. Un giorno, per caso, mentre lavoravo come cameriere ho sentito un gruppo di persone parlare di photoshooting e quando ho sentito questa parola mi sono buttato nella conversazione chiedendo se avessero bisogno di una mano. Così ho fatto il mio primo lavoro in un’agenzia come production runner, cioè mi occupavo un po’ di tutto sul set fotografico, aiutavo di qua e di là. Una volta mi capitò di guidare uno sprinter a passo lungo con un rimorchio. Ero molto stanco e non essendo un grandissimo guidatore, all’improvviso mi ritrovai in un vicolo cieco e bruciai la frizione. Per fortuna era l’ultimo giorno di scatto, la producer non si arrabbiò troppo con me e anzi continuò a chiamarmi. Però dopo un po’ ho capito che il mercato di Oslo era troppo piccolo».

Ed è a questo punto che hai lasciato la Norvegia per l’Inghilterra?

«Sì, nel 2015 ho deciso di andare a Londra perché gli inglesi in fatto di fotografia e di cinema la sanno lunga, sono molto organizzati. Avevo dei contatti da parte di alcune crew inglesi che avevo conosciuto ad Oslo, ma quando sono arrivato lì mi hanno lasciato un po’ a piedi, quindi ho dovuto ricominciare da zero. Il primo anno a Londra è stato molto duro, dovevo farmi conoscere ed entrare nel giro. Sono stato fortunato perché lì ho molti amici che mi hanno dato ospitalità in quel periodo. Nel secondo anno ho incominciato a lavorare come assistente fotografico, ho iniziato quindi a fare un po’ di gavetta. Ho lavorato con diversi fotografi, anche di livello internazionale. Adesso sono quattro anni che vivo qui e continuo a fare l’assistente, il processo per diventare fotografo full time è lungo».

Come nasce la foto con cui hai vinto il primo premio al concorso Spotlight Award?

«Collaboro con un magazine, The Rugby Journal, un giornale giovane e di buona qualità a livello di foto e di articoli, e mi occupo quindi di fotografie di sport. Un ragazzo del CUS di Siena che segue la rivista ci ha scritto dicendoci che il campo da rugby della città è il peggiore di tutta Europa, catturando così l’attenzione del mio direttore che ha deciso di raccontare questa storia con annesse fotografie».

Quindi sei tornato a casa per lavoro?

«Sì infatti, è stata una buona occasione. Sono tornato a Siena e c’era questo torneo di bambini under 12 e abbiamo fatto un reportage sull’ambiente e sul campo da rugby. Ho visto che c’era questo bambino pieno di fango, l’ho fatto sedere sulla gradinata e gli ho scattato la foto. A me piace costruire lo scatto, non rubarlo, ci voglio mettere del mio. La foto è piaciuta molto, tanto che è stata usata come immagine di copertina. Allora ho provato a partecipare ad un concorso e ho vinto».

 

E come mai adesso sei in Giappone?

«Perché la mia ragazza è giapponese e abbiamo intenzione di sposarci, quindi sono venuto a conoscere la sua famiglia. Sono arrivato da appena due giorni ma starò un mesetto, lei mi farà vedere Tokyo. Il Giappone per me è sempre stato un pallino, mi interessa molto la cultura giapponese. Il mio obiettivo è viaggiare il più possibile per prendere il meglio dalle varie culture e poi metterle insieme per creare qualcosa di importante sia dal punto di vista sociale che lavorativo. Per i vari comuni, come Poggibonsi o Siena, potrebbe essere molto interessante creare dei piccoli comitati di gente che vive o ha vissuto fuori chiedendo dei consigli su quello che si può migliorare in base alle loro esperienze».

Pensi un giorno di ritornare a Poggibonsi oppure in generale in Italia? Hai mai nostalgia di casa?

«Ad essere sincero fino a qualche tempo fa non ci pensavo a trasferirmi in Italia, però alla mia ragazza piace molto il nostro paese e parla benissimo l’italiano, per cui ritornerò, magari non a Poggibonsi ma a Milano. Nostalgia no ne ho molta, anche se mi mancano alcuni miei amici. L’Italia in generale mi manca per alcune cose, ma mi sembra molto indietro sotto altri punti di vista. Della Toscana rimpiango soprattutto la qualità della vita. Comunque l’idea di tornare c’è, anche se l’anno prossimo mi trasferirò a Parigi, visto che la mia ragazza lavora lì».

Vincenzo Rosario Battaglia 

Chiunque voglia contribuire e raccontare la sua storia può scrivere a redazione@valdelsa.net

Pubblicato il 15 ottobre 2019

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