Si tratta di una sigla. Si chiama Covid-19
Pubblichiamo il testo inviatoci da Mattia Galigani, 17enne liceale colligiano che frequenta il quarto anno del Liceo Linguistico San Giovanni Bosco. L'obiettivo del testo è quello di sensibilizzare i coetanei di Mattia a rispettare le prescrizioni per evitare di diffondere in modo irreparabile il virus.
Un’autostrada a dieci corsie. Deserta. Il frastuono quotidiano al quale tutti gli abitanti delle zone adiacenti sono abituati, ha lasciato posto a un silenzio assordante che, unito a una nebbiolina tetra a sormontare la strada e i palazzi, trasmette una tale malinconia tanto da rendere l’atmosfera surreale. Un supermercato solitamente affollatissimo situato nel pieno centro della città. Deserto. Gli scaffali sono ormai vuoti da giorni, la gente si è riversata sui beni di prima necessità come se si trovasse nella giungla più impervia del mondo, ed in effetti, forse, l’umanità si è veramente inoltrata in una giungla ricca di sterpaglie anguste dalla quale è davvero difficile uscire. Le pochissime persone presenti, camminano frettolosamente per i viali pedonabili senza alcuna voglia di parlare o di incrociare il nostro sguardo. Cercano di evitare ogni sorta di contatto scappando furtivamente alla vista di altri individui e proteggendosi con delle mascherine bianche delle quali, ovviamente, le farmacie sono state svuotate in un battibaleno. Si chiama Wuhan. Un nome che nella lingua più graficamente artistica del mondo non significa nulla. Si tratta di un agglomerato urbano che, insieme ai suoi soli 11 milioni di abitanti, era sconosciuto al mondo fino al gennaio scorso, quando involontariamente ma soprattutto tristemente è diventato il centro nevralgico di qualsiasi conversazione in giro per il pianeta. Se ne parla ad ogni ora del giorno in tutte le trasmissioni televisive che il palinsesto propone agli spettatori, se ne parla in ogni luogo di aggregazione davanti ad un buon caffè o un boccale di birra, senza rendersi conto, ingenuamente, dell’entità di questa ennesima emergenza che flagella il nostro amato mondo.
Capodanno-20
È il 31 dicembre 2019, ovunque si avverte l’atmosfera di festa, l’aria che si respira è quella delle grandi occasioni. Siamo pronti a brindare all’anno che sta per arrivare, una pagina vuota tutta da scrivere con l’inchiostro più bello possibile. Non tutti però riescono a gioire con un calice di spumante in mano, i sentimenti contrastanti si accavallano, le ore di lavoro si fanno incessanti. Sono già alcuni giorni che in Cina la preoccupazione è salita a livelli altissimi. Alcune persone si sono presentate in ospedale con gravi difficoltà respiratorie, non ci sono dubbi, si tratta di una forma di polmonite acuta. Una scoperta lascia però i medici molto interdetti: l’origine di questo particolare tipo della malattia è sconosciuta. Viene effettuato un controllo più accurato. Nessuna referenza. Scatta l’allarme. La salute pubblica è a rischio. I ricercatori di tutto il Paese lavorano senza sosta fino alla scoperta che li lascerà a bocca aperta e che allarmerà il mondo intero. 7 gennaio 2020.
Proprio mentre per milioni di studenti italiani è tornata a suonare la campanella, le autorità cinesi confermano la scoperta di un nuovo tipo di coronavirus contro il quale, al momento, non esiste una cura specifica. Viene lanciata l’allerta. Le istituzioni di tutto il mondo sono nel panico più totale. Il timore che l’economia, la salute pubblica, le relazioni sociali a livello internazionale, subiscono una mazzata pesante, è forte. L’intero pianeta si mobilita sin da subito per cercare di arginare in qualche modo il propagarsi della malattia: si cerca di avviare una fase embrionale di una cura sperimentale, si cerca un modo per trattare al meglio le persone infette con la speranza che non diffondano il virus, Una questione di non poca rilevanza adesso è anche quella di trovargli un nome. Nessuno si vuole accollare una tale responsabilità, non si tratta di un qualcosa di cui andare fieri. Si opta quindi per una semplice sigla: 2019-nCoV, 2019-newCoronaVirus (successivamente rinominato SARS-CoV-2). Sembra il fattore scatenante di una normale influenza, i sintomi sono più o meno quelli: febbre, tosse, difficoltà a respirare, dolori generali, ma è tutt’altra malattia. Anche qui si sceglie una sigla. Si chiama COVID-19 CoronaVirusDisease-19. Tanto semplice quanto diretta.
Emergenza Wuhan
L’emergenza va contenuta in qualche modo, non si può continuare a far circolare liberamente una possibile condanna a morte. A pensarci è il governo cinese, adottando una misura tanto folle quanto estremamente necessaria. 22 gennaio. La città di Wuhan, insieme a tutta la provincia dell’Hubei (si parla quindi di circa 60 milioni di abitanti, tutta la popolazione italiana per intendersi) è rinchiusa in una quarantena forzata. Il New York Times conferma, si tratta della più drastica misura di isolamentototale disposta nella storia umana.
Le strade di accesso alla città sono sbarrate, i posti di blocco impediscono a chiunque di oltrepassare il confine invalicabile. I cittadini sono quindi letteralmente chiusi in una gabbia dalla quale è impossibile uscire. Nell’aria si sentono continuamente delle grida agghiaccianti. Provengono dalle migliaia di condomini nei quali le persone costrette alla quarantena decidono di non mollare e di far sentire la loro voce cantando a squarciagola il coro “Wuhan, combatti!” tanto da far venire la pelle d’oca.
È strettamente necessario cercare di contenere in ogni modo questa epidemia subdola, anche se è davvero difficile. L’uomo nella sua indole non ha mai accettato di vivere rinchiuso in uno spazio che altri hanno deciso per lui. La parola “reclusione” non ha mai avuto un posto privilegiato nel nostro vocabolario. Neanche quando i regimi totalitari ci imponevano cultura e costumi (fatti che purtroppo avvengono anche al giorno d’oggi in alcuni Paesi), neanche quando ci siamo trovati sotto attacco in periodo di guerra, neanche quando non sapevamo neppure parlare e ci emozionavamo sbattendo semplicemente una roccia a terra, figuriamoci se ci vogliamo rassegnare a impararla adesso. Nei casi di emergenze di questo calibro però, deve essere imparata forzatamente, non ci sono scuse, è imprescindibile mettere a repentaglio la salute di miliardi di persone, soltanto per essersi rifiutati di attenersi alle regole. L’emergenza deve essere limitata, al più presto. Le drastiche misure cautelari adottate dal governo cinese non ottengono però l’effetto desiderato. Il nuovo virus si diffonde incontrastato in giro per il mondo colpendo prima i paesi limitrofi all’epicentro come il Giappone e la Corea del Sud per poi espandersi anche nel Vecchio Continente arrivando a bussarci alla porta di casa.
Il virus a Roma
La paura si semina ovunque. È il 31 gennaio. Ore 10:40. Proprio mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta dichiarando il 2019-nCoV un rischio per la salute pubblica mondiale, fornendo precise direttive agli Stati sulla corretta gestione dell’emergenza, ANSA conferma: i tamponi effettuati a Roma su una coppia di anziani turisti cinesi risultano positivi al COVID-19. I coniugi vengono immediatamente trasportati allo Spallanzani, una delle eccellenze ospedaliere italiane. Sono ricoverati in terapia intensiva, le loro condizioni non sono gravi ma la prognosi rimane riservata. La notizia arriva alle nostre orecchie con un misto di shock, sapere che un qualcosa considerato come lontanissimo è invece arrivato anche da noi non ci fa certamente stare tranquilli, ma anche un sentore di eccessiva preoccupazione, in fondo si tratta solo di due casi, provenienti per altro dalla zona del focolaio cinese, su una popolazione di 60 milioni di persone. Nessuno si sarebbe immaginato che appena un mese dopo saremmo stati costretti a chiudere tutto, a fermare quasi completamente le nostre vite. Tutto per colpa di una sigla, COVID-19.
La coppia cinese uscirà dalla terapia intensiva negli ultimi giorni di febbraio. Entrambi i coniugi sono riusciti a guarire. Perché ebbene sì, questo virus può anche essere battuto. Non è facile, non si tratta di una semplice influenza che si può curare con i soliti due farmaci prescritti dal medico di famiglia, ma questo nuovo coronavirus può essere sconfitto. Purtroppo però, in alcuni casi, specialmente tra le persone più deboli a livello immunitario, come gli anziani o i portatori di patologie pregresse, è questo maledetto essere di forma circolare ad avere la meglio2 febbraio.
Il governo filippino ufficializza il primo decesso dovuto al COVID-19 fuori dai confini cinesi: un uomo di 44 anni non ce l’ha fatta. L’Europa si mobilita ancora di più, rendendosi conto che la faccenda è più pericolosa di quanto si poteva prevedere e anche di ciò che speravamo. Come già successo innumerevoli volte nel passato, è il nostro Paese a mettersi in mostra. Solo due giorni dopo rispetto ai primi due contagi, il direttore dell’Ospedale Spallanzani conferma che un’équipe di medici, composta prevalentemente da dottoresse, ha isolato la sequenza genomica del virus. Ancora una volta non abbiamo perso l’occasione per dimostrare al mondo chi siamo: etichettati come un popolo di buoni a nulla capaci però di fare tutto come amava dire lo scrittore Leo Longanesi. Possiamo quindi avviare una serie di importanti studi che serviranno a conoscere al meglio questo nuovo tipo di coronavirus apparso sul nostro pianeta come dal nulla. L’epidemia però non è intenzionata ad arrestarsi. Il numero di casi confermati in Cina continua a salire a dismisura, tra provvedimenti di una drasticità mai vista prima (soggetti tra l’altro anche a forti polemiche) come l’isolamento forzato della nave da crociera Diamond Princess, lasciata per più di venti giorni attraccata al porto di Yokohama, in Giappone, insieme alle 3711 persone a bordo delle quali ben 705 sono risultate positive al COVID- 19; e tra annullamenti di eventi sportivi di risonanza mondiale, come il Gran Premio di Formula 1 di Shanghai, la paura aumenta. Siamo però consapevoli che ancora a casa nostra non c’è pericolo. Ai telegiornali se ne parla come un qualcosa di lontano, che va trattato con le pinze, ma che ancora non riesce ad intimorirci.
Aperitivi con gli amici. Balli sfrenati in discoteca. Spalti gremiti per le partite di calcio. Snervanti giornate di scuola. Tutto procede nella normalità. Fin troppa normalità. Il virus arriva apparentemente dal nulla, come qualsiasi elemento apparso sul nostro Pianeta nel corso dei millenni. 21 febbraio 2020. Una data che entrerà di diritto nei libri di storia e che verrà studiata capillarmente dai nostri nipoti. Un uomo di trentott’anni avverte problemi respiratori. Si reca all’ospedale del paese dove vive, Codogno, un comune di appena quindicimila anime in pieno lodigiano, dove si constata che il paziente non è mai stato in Cina in vita sua. Eppure il tampone è positivo. Si tratta di una sigla. Si tratta di COVID-19.
Pandemia globale
Ed è da questo piccolo paese che si scatena il caos in Italia. I numeri salgono vorticosamente di ora in ora. Il contagio non si limita più al lodigiano, raggiunge l’intera Lombardia per poi espandersi in Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna, fino ad arrivare ad essere presente in ciascuna delle nostre regioni. 76. 152. 403. 1200. 3089. 5678. 7902. 9453. I tamponi positivi incrementano continuamente. L’atmosfera surreale di Wuhan è adesso arrivata anche a casa nostra. Le strade sono pressoché deserte. I bar, ristoranti, negozi di vario genere continuano a mantenere le saracinesche alzate, ma sono obbligati da un decreto a far rispettare la distanza di sicurezza. I fortunati che sono riusciti ad accaparrarsela prima dell’esaurimento di tutte le scorte indossano la mascherina, altri preferiscono non metterla. I saluti si fanno da lontano e con sguardi circospetti. Vengono lanciati gli hashtag #iorestoacasa, #distantimauniti e #andràtuttobene con lo scopo di sensibilizzare anche i troppi imbecilli che ancora non si sono resi conto della gravità della situazione e che continuano a vivere la propria vita come se nulla stesse accadendo. Non è neppure troppo difficile capire che durante queste giornate siamo testimoni di un avvenimento tanto indesiderato quanto storico: basta accendere la televisione e guardare una partita di calcio, sulle tribune non si vedono colori, sciarpe, striscioni, non si sentono cori piacevoli o spiacevoli a discrezione della squadra supportata, non si sentono i boati né i fischi, si vedono solo seggiolini vuoti accuratamente ripiegati. Silenzio di tomba. Solo il rumore del pallone e le grida tattiche dell’allenatore. Nient’altro.
Non è difficile capire che tutto questo non è normale. Non è normale che le persone siano riluttanti alla più bella forma di esprimere la vita e la presenza: il contatto. Non è normale ma è necessario. Ed è qui che il virus colpisce in una maniera estremamente subdola. Anche se fortunatamente non ne siamo ancora stati colpiti, i suoi effetti ci arrivano come delle pugnalate in pieno petto. Siamo costretti a rimanere in casa, vedere il cielo solo dalla finestra. Siamo obbligati a mantenere la distanza di sicurezza di un metro anche tra i familiari più stretti. Abbiamo sentito decine e decine di volte i consigli che il nostro Ministero della Salute fa trasmettere di continuo in tutte le emittenti televisive per istruire la popolazione su alcuni buoni comportamenti da seguire al fine di evitare ulteriori contagi del il virus ed è incredibile come nonostante cerchiamo accuratamente di rispettarli, al telegiornale ci continuano a raccontare di come i casi positivi continuino a crescere. La nostra forza morale cala vorticosamente, la preoccupazione sale ma non dobbiamo arrenderci, combattere con tutte le nostre forze e con l’arma più potente di tutte: la nostra testa. Con la consapevolezza che quando torneremo a far tintinnare i nostri calici da Prosecco, quando torneremo a muovere tutto il nostro corpo sotto una musica talmente potente da far vibrare la pelle, quando torneremo a cantare a squarciagola i cori per
La nostra squadra del cuore, quando torneremo a sdraiarci sull’erba fresca e colma di morbide margherite, quando torneremo ad abbracciarci, baciarci, amarci, avremo davvero vinto la battaglia. Sarà lunga, ma per il premio che riceveremo, questa attesa snervante, sarà valsa davvero la pena.
Mattia Galigani
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Pubblicato il 14 marzo 2020