Supportare i bambini (e noi stessi) in questo tempo lento e faticoso

Sono trascorsi diversi giorni da quando, metabolizzata la necessità di dover rimanere più tempo possibile in casa per ridurre il rischio di contagio, abbiamo cominciato a interiorizzare una diversa routine, per dare nuovo senso a questi giorni, nella speranza che non siano momenti pieni solo di stanchezza e di "vorrei"

 GIULIA LOTTI
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I primi giorni, forse, conservavano più smarrimento ma anche curiosità per questo nuovo tempo da riempire, creatività, energia da spendere per noi e per i nostri figli. E’ probabile, però, che una volta che anche il nuovo è diventato familiare, siano arrivati un senso di fatica, di incognita per il non sapere né quando, né come questa emergenza finirà e neppure come potrà essere da allora in poi. Nel mentre, si alternano note di sconforto, timore serpeggiante, inquietudine e perché no, a volte anche di felicità per non avere l’orologio che cadenza ogni attimo, per fare insieme ai propri cari cose semplici è quotidiane che, chissà perché, fino a poco fa ci sembravano forse pure un pò noiose. In questa danza di emozioni discordanti, ci troviamo a correre e, un pò come accade poco prima dell’arrivo, ci manca il respiro, a volte arranchiamo e ci chiediamo molte cose, avendo, però, ben poche risposte. Questo essere in salita e non vedere mai oltre

la siepe, ci mette ad un bivio: posso imboccare il sentiero della rabbia, scagliandomi contro chi ho accanto, nell’infinito elenco “di cosa ho sbagliato e di cosa non va”, oppure incamminarmi dentro quella stradina che ha uno strapiombo fatto di sfiducia di “quasi quasi mollo, tanto che differenza fa”.

Nessuna delle due strade è percorribile adesso. Non se vogliamo provare ad essere per i nostri figli, e prima ancora per noi, quella “base sicura” per cui avevamo tanto a lungo faticato finora.

Azzarderei che, in una contingenza come quella che attraversiamo attualmente, non c’è un limite netto di età per cui non valga più essere un punto di riferimento, una luce nel buio, un decodificatore di emozioni e pensieri, per i figli che abbiamo a casa con noi. Questo tempo, ci offre senza dubbio una sfida nella sfida: mostrare ai piccoli e meno piccoli di casa come si tollera una frustrazione, come ci prendiamo cura di un dolore o di una paura, come possiamo conservare una scintilla di speranza in un presente un pò stagnante e in un futuro tanto incerto.

Ma come posso essere tutto questo: luce, carezza, conforto, tenuta nella fatica, se arranco, se mi demotivo, se sbuffo, se mi sento inadeguato?!?

Si può, perché siamo umani e i nostri figli devono e possono vedere che sotto i nostri abiti c’è tutto questo groviglio di imperfezione e di timori. Ma possiamo provare a nuotarci dentro, diventando sempre più abili a dire e a dirci in che acque stiamo navigando.

Se diamo un nome alle cose, lo faranno anche loro. Se mostriamo fragilità, lo faranno anche loro. Se offriamo conforto a questi piccoli o grandi momenti di difficoltà, lo faranno anche loro e impareranno ad essere forse adulti che esprimono le loro emozioni, che confortano, che provano a resistere nella fatica conservando senso e speranza.

Per rendere questo praticabile, è utile aprire un dialogo con i bambini, in modo che ciò che si ha dentro diventi reale, si possa quasi “materializzare” e toccare.

E i bambini, che, fortuna loro, conservano ancora il gusto della concretezza delle cose, sentiranno certamente sollievo dal poter plasmare, un pò come i giochi che a loro piacciono tanto, emozioni complesse come quelle percepite ora.

Inutile far finta che non stia succedendo niente; mettere una coperta enorme sulle loro paure non li aiuterà a capire come si fronteggia una difficoltà.

Vedere noi che teniamo il timone nuotando e parlando di quanto sia a volte faticoso, a volte avvincente, altre volte ancora noioso nuotare, invece, sarà un grande sollievo per loro.

Mi piace pensare che questo tempo storico in cui siamo bloccati in un confine stretto, in cui il raggio di azione per muoverci è veramente circoscritto a pochi metri quadri, faccia largo al “simbolo”, all’anima, creando un ponte tra il nostro corpo, le azioni e le emozioni. Non possiamo correre via per fuggire da un dolore, scappare a comprare qualcosa, né entrare in un bar per fare un aperitivo “e non pensarci più”.

Dobbiamo “stare”, esserci, farci compagnia, attraversare quel mare e cucire tutte le parti di noi in aquilone bellissimo, pronto, prima o poi, a tornare a volare.

Non volerà lo stesso volo, semplicemente perché nessuno resta uguale dopo aver attraversato un mare denso come quello di questi giorni.

E come si cuce questo aquilone?

Con il filo blu di quella volta che ho piantato con mio figlio il basilico sul balcone e gli ho insegnato che l’attesa è fatta di acqua, mani che si sporcano, sole e preghiere che il vento non sia troppo forte e la grandine non decida di scendere.

Con il filo giallo fatto di tempere, pennelli, fogli e ritagli di giornale: le emozioni sono strane e possono, come i gas, prendere la forma dello spazio che le occupa.

E ancora, con il filo rosso di una storia inventata, di una fotografia che scatta un momento bello, banale, triste, un momento di cui proprio domani non ci si vuol dimenticare.

Il filo grigio, di quando nulla è al posto suo, ci butteremmo sul letto sventolando bandiera bianca ma poi la forza torna e, insieme a lei, anche l’invenzione dell’ennesimo gioco per rendere piacevole un compito da assolvere.

Il filo inconsistente delle bolle di sapone, che soffiano via i brutti pensieri o il peso della giornata trascorsa, quando è finalmente l’ora di un bagno caldo.

Il filo delicato di una parola gentile, che diventa una bussola che ti centra di nuovo, in mezzo al buio della tensione.

Il filo nero, che unisce la terra al cielo, perché questo tempo è pervaso di vita ma anche di morte ed è giusto che, almeno un frammento di tessuto si possa dedicare anche a questa trama.

Con i fili multicolore di quella volta che abbiamo riso, poi pianto, poi riso. Poi cucinato un dolce che non meritava una foto, che non aveva neppure un ingrediente pesato bene ma era buono perché lo avevamo fatto insieme.
 

Giulia Lotti - Sono nata e cresciuta a Poggibonsi, dove vivo con la mia famiglia. Mamma di Stella e Pietro, rispettivamente di 5 e 9 anni. Svolgo sul territorio l’attività di psicoterapeuta, lavorando sia in libera professione, alla Pubblica Assistenza di Poggibonsi, che presso la Casa di Reclusione di San Gimignano. La mia passione per le storie di vita nasce fin da bambina, quando chiedevo a mia nonna di leggermi fiabe e racconti i cui protagonisti erano persone impegnate nelle varie tappe del vivere quotidiano, che amavano, soffrivano e, a loro modo, provavano a disegnare i confini entro i quali esistere. Con il tempo, ho coltivato l’amore per la lettura e per la scrittura introspettiva, scegliendo poi un lavoro attraverso cui le storie e i protagonisti dei racconti di vita trovassero uno spazio, quello della terapia, appunto, dove potersi fermare, raccontarsi e raccogliere l’entusiasmo necessario per riprendere il viaggio. La rubrica “Una stanza tutta per sé” vuole essere un’occasione per riflettere, condividere storie, tessere un filo comunicativo tra le persone. Una stanza per noi ma con finestre comunicanti, da cui poter parlare, ascoltare, entrare in sintonia con noi stessi e con gli altri.

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Pubblicato il 18 aprile 2020

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