Tra poche settimane Giacomo dovrà fare la valigia e partire da Toronto. E' una valigia ''del ritorno'', come tante altre che ha fatto nei suoi viaggi, ma è sempre più pesante

Questa volta, come molte altre, sarà la valigia del ritorno. Una valigia che è sempre più piena di quella preparata all'andata. Con l'esperienza ti evolvi in un modo che ti porta a farla, all'andata, sempre più minimalista. Ti rendi conto che le cose essenziali da portare sono in realtà molte meno di quanto pensavi la volta precedente

 ITALIANI ALL'ESTERO
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Tra poche settimane sarà già l'ora di fare una nuova valigia. Questa volta, come molte altre, sarà la valigia del ritorno. Una valigia che è sempre più piena di quella preparata all'andata. Con l'esperienza ti evolvi in un modo che ti porta a farla, all'andata, sempre più minimalista. Ti rendi conto che le cose essenziali da portare sono in realtà molte meno di quanto pensavi la volta precedente. Pensate che mi riferisca alla valigia dei vestiti? Ecco, vale anche per quella, ma non è a quella che mi riferivo... la valigia che intendo è quella in cui, alla partenza, si lasciano fuori paure e preoccupazioni, come se fossero cappotti troppo pesanti, e si parte così ogni volta più leggeri. Al ritorno, invece, è sempre più piena. Vi si sono aggiunte cose banali, come qualche curiosità imparata sul posto dove sei stato; altre importanti, come qualche esperienza in più nelle competenze personali riguardo al lavoro, all'istruzione, alla lingua; altre cose ancora preziose, come una maggiore consapevolezza di te stesso, una maggiore fiducia nelle tue potenzialità, un senso di comunità che va oltre a quello che prima era limitato entro il gruppo di amici o la famiglia.

Ero ancora un ragazzetto di terza media quando sono partito la prima volta per una vacanza studio all'estero, in Inghilterra. A quel tempo San Marino era quanto di più straniero i miei occhi avessero mai visto. La mia valigia, verde acqua con le maniglie gialle (un attentato al buon gusto), era abbastanza pesante. Questa volta sì, quella dei vestiti. Pesante come una mamma e una nonna premurose avrebbero potuto renderla nonostante avessi cercato di oppormi in tutte le maniere. Per la prima volta mi trovai ad affrontare una lingua e tradizioni diverse che mi lasciarono affascinato al pensiero di quanto ci potesse essere da imparare. Furono solo quindici giorni, ma diedero l'inizio a una lunga serie di partenze. Le prime, sempre continuando con le vacanze studio, si focalizzarono sul miglioramento dell'inglese. Le destinazioni che andavano per la maggiore erano il Regno Unito e l'Irlanda.

In seguito a questi viaggi si sono affiancati gli scambi culturali alle scuole superiori. Il mezzo che faceva da tramite in queste esperienze era uno spettacolino teatrale in lingua inglese che veniva messo in scena durante lo scambio. Prima si ospitava per una settimana un amico inglese, tedesco o australiano e poi si andava a trovarlo a casa sua. La maggior parte di queste persone, sia quelle italiane che hanno partecipato allo scambio con me, sia quelle straniere che ho avuto il piacere di ospitare, sono ancora tutte immagini bellissime nella mia mente.
Dopo queste fantastiche esperienze, tante ma tutte di breve permanenza all'estero, ho fatto altri viaggi per vacanze qua e là per l'Europa.

E' trascorsa quasi tutta l'università prima che avessi l'occasione per il "salto di qualità". Un'esperienza all'estero più lunga e strutturata. L'occasione, come per molti altri studenti, è stata la tesi della laurea specialistica. Insieme ad un carissimo amico, siamo partiti alla volta di Delft, in Olanda. E' stata sicuramente la curiosità e la passione smisurata per quello che studiavamo a farci partire. Infatti, siamo andati là completamente autofinanziati, senza neanche un rimborso spese né da parte dell'Università di Firenze, né da quella di Delft. Ci siamo "accasati" e abbiamo avuto la possibilità di fare ricerca con mezzi che in Italia forse non sarebbero stati disponibili per noi. Il nostro lavoro è stato ripagato appieno, almeno dal punto di vista accademico, da un articolo presentato a una conferenza e una successiva pubblicazione su rivista scientifica. A Delft abbiamo vissuto sei mesi indimenticabili. Per la prima volta sono venuto in contatto con la realtà universitaria di un altro Paese, notandone, a malincuore, alcune eccellenze rispetto ad analoghe situazioni italiane. Ho conosciuto un sacco di ricercatori brillanti, sia italiani sia di altre nazionalità, che si sono mossi e poi definitivamente stabiliti a Delft, per le opportunità presenti.

C'è una cosa che mi ha reso fiero ma anche triste allo stesso tempo. Il fatto che i ricercatori italiani sono spesso molto apprezzati là. La loro preparazione è considerata superiore alla media e questo rende merito alle nostre Università in un certo senso. Le stesse Università che spesso, però, non sono in grado di fornire a queste menti un futuro italiano. A Delft, forse, ci sarebbe stato posto anche per me. Mi hanno offerto sia di candidarmi per il dottorato, sia una posizione da ricercatore a breve termine. Nonostante tutto, io sentivo che Delft non era il posto per me e quindi ho preferito tornare in Italia. Anche perché io non volevo mica fare il dottorato...

Tornato in Italia, cosa ho fatto? Ho iniziato un dottorato in Ingegneria elettronica. L'ho iniziato, oltre che per la curiosità che avevo per l'argomento, anche perché l'ho visto come un mezzo per aprire ancora di più i miei orizzonti e la mia possibilità di viaggiare. Ricordo ancora quando al primo colloquio dissi ai miei supervisori: «Sappiate che se c'è modo di partire per andare in qualunque posto, io sono sempre pronto». E' così che adesso sono arrivato fino in Canada, a Toronto, per un periodo di quattro mesi come dottorando ospite. Contemporaneamente, durante le vacanze estive, c'è entrato anche di fare un viaggio di tre settimane "on the road" tra Stati Uniti orientali e il Canada orientale.

Ecco, se l'Olanda mi ha aperto gli occhi sull'Europa, queste ultime esperienze me li hanno aperti sul mondo. Ho conosciuto persone che si sono mosse fin qua da ogni parte del pianeta. All'Università di Toronto ho avuto modo di notare come sia semplice fare coesistere ricerca e accademia con la realtà industriale. Qui sembra banale e ovvio che la ricerca, specialmente nel mio settore, sia finanziata dall'industria privata. Se sono un imprenditore e ho un problema tecnico da risolvere per cui non trovo una soluzione, o in cui non voglio impegnare la mia forza lavoro, è naturale che mi rivolga alle Università. Sanno bene che è nelle Università che si cela il loro futuro, sotto forma di quella passione e curiosità che anima soprattutto i più giovani, e perciò cercano di instaurare rapporti stretti con i vari laboratori di ricerca. Ma fino a qui credo di dire cose più che risapute.

Voglio aggiungere un aneddoto che mi è capitato qualche settimana fa. Mentre ero in laboratorio qua a Toronto, alcuni dei miei colleghi (per lo più studenti per il "Master of Science", simile a quella che da noi è la laurea magistrale) parlavano della restituzione di un portatile, da parte di uno di loro, al laboratorio. Ho chiesto per curiosità come mai avesse avuto la possibilità di lavorare su un portatile del laboratorio e se era in qualche modo legato al suo lavoro di tesi. La risposta è stata che qui tutti, sia gli studenti "Master of Science" (MSc) che i dottorandi, lavorano su portatili appositamente comprati per loro con i fondi del laboratorio. In Italia, almeno nei posti in cui sono stato io, gli studenti della laurea magistrale che stanno facendo la tesi usano il loro portatile personale per lavorare. Solo gli studenti del dottorato, in alcune Università, hanno la possibilità di avere un portatile di lavoro pagato con fondi della ricerca. Ma questo è il meno, la conversazione è andata avanti e ho scoperto che qui gli studenti MSc percepiscono uno stipendio mensile! Non ho potuto che pensare a tutti quelli che come me, hanno fatto, stanno facendo o faranno il percorso di studi per la loro laurea magistrale in Italia. Si pagano le loro tasse di iscrizione e durante la tesi studiano per imparare qualcosa. Ecco, anche qui studiano per imparare qualcosa, ma nello stesso tempo li pagano! Ovviamente, non è tutto rose e fiori. Qui li pagano perché spesso i loro lavori di tesi sono finanziati da aziende, quindi è molto importante mantenere una certa produttività e mostrare in maniera ordinata i risultati che si ottengono via via. Inoltre, questo approccio è tipico nei dipartimenti di Ingegneria, in cui c'è un rapporto diretto con varie aziende che commissionano ricerca e finanziano, ma non è generalizzato a tutte le lauree. Si deve aggiungere anche che c'è una selezione e un colloquio diretto con il professore che farà da supervisore, quindi, non è automatico che se vai ad ingegneria e vuoi prendere il MSc ti danno uno stipendio. Però, se sei bravo e vuoi prendere il MSc, questa è un'opportunità che esiste.

Per ritornare un po' più al generale, devo dire che a Toronto si sta bene, ma non mi sembra che venga fatto niente di eccezionale. Come all'Università fanno semplicemente ciò che ci si aspetterebbe da essa, allo stesso modo nel resto della quotidianità, non trovo niente di soprannaturale. E' scontato che si debbano pagare le tasse e obbedire alle regole della convivenza civile. Anche quello che all'apparenza vi sembra essere il canadese più teppista, rispetta una fila, raccoglie e getta nel cassonetto la sua immondizia, si ferma alle strisce pedonali per farvi attraversare. Verrebbe da chiedersi: perché non resti lì allora? Perché io non sono canadese, sono italiano. E da italiano, nonostante tutto credo ancora che un futuro migliore per questa nostra Italia un po' malandata lo possiamo creare.

Se c'è una cosa che ho capito, nel mio viaggiare, è che molto probabilmente dovrò ripartire svariate volte, anche per periodi di qualche anno, ma il mio sogno finale è quello di poter tornare a lavorare e vivere in Italia. Magari, riportando indietro con me quanto ho imparato nei vari posti in cui sono stato. Questo, forse, è uno dei bagagli più belli che ogni volta rimetto in valigia al ritorno.

Giacomo Calabrese

Chiunque voglia contribuire e raccontare la sua storia può scrivere a redazione@valdelsa.net

Pubblicato il 5 settembre 2014

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